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giovedì 18 luglio 2019

IN MORTE DI ANDREA CAMILLERI


Ei fu. Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, dopo il silenzio e la riflessione successiva alla ferale notizia, il mio genio scioglie all’eterne pagine del web qualche effimera riga.
Non so se ai miei venticinque lettori piacerà o no, ma credo doveroso che un aspirante giallista consumi un po’ del suo prezioso tempo per parlare di colui che, nel bene e / o nel male, ha cambiato le regole di scrittura del giallo e, in un certo qual modo, del romanzo storico. Come il perspicace lettore avrà capito dalle prime righe di questo scritto, non mi occuperò del Camilleri “politico” o dell’uomo-Camilleri. Giudicare l’uno e l’altro non compete al sottoscritto, se non per quel, poco o tanto che sia, che tocca lo scrittore, e soprattutto il giallista.
Qualcuno ha detto che “il Maestro”, come veniva chiamato, era un artista a tutto tondo. Certamente, per molti versi, lo è stato. A partire dal suo impegno nella TV, quella TV che fa parte di altri tempi e che regalò prodotti come Il tenente Sheridan e il Maigret di Gino Cervi, dei quali fu sceneggiatore; maestro lo è stato anche, per così dire, in cattedra al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e all’Accademia nazionale d’arte drammatica; ma non si possono dimenticare nemmeno i suoi contributi come attore (nel poco apprezzato La strategia della maschera di Rocco Mortelliti, in Quel treno da Vienna, film tratto dall’omonimo romanzo di Corrado Augias, e, infine, nel suo Conversazioni su Tiresia) e regista, come teorico del teatro (cfr. i suoi lavori pirandelliani) e anche come poeta (sebbene, credo, anche se non ho mai letto nulla dei suoi versi, in tono minore, nonostante ci sia la notizia che Ungaretti abbia voluto anche dei suoi contributi per un’antologia). E si potrebbe parlare anche di altre cose. In realtà, Camilleri, come ha avuto modo di dire lui stesso, è stato un uomo fortunato, “che ha sempre fatto ciò che a lui è piaciuto” (cit.) e, più che un “maestro” strictu sensu, è stato un uomo colto, che ha saputo rielaborare in maniera più o meno originale (ma, a volte, semplicemente mescolando stili e forme) ciò che aveva appreso da altri: dalla tradizione della “sua” Sicilia, soprattutto pirandelliana, ma anche dal suo vasto sapere storico e letterario, dal suo vissuto e dalle sue letture (curiosità, fatti di cronaca e varia attualità, compresa quella politica, che lui analizzava, ovviamente, con la sua lente di uomo di sinistra). Un artista a tutto tondo e, sotto un certo aspetto, geniale, un uomo fortunato che, dopo un’infanzia e adolescenza certamente difficili – fascismo e guerra –, si è perfettamente “incastonato” in quella che è stata l’Italia dal Dopoguerra a oggi. Un’Italia – e, qui, non vorrei essere frainteso, perché, se è lecito pensarla diversamente, non si può negare che le cose stiano proprio così – che ha visto, continuamente, al potere la sinistra più retriva e, checché se ne dica, meno incline al progressismo che va sbandierando. Se, infatti, secondo un articolo riportato sull’edizione online de Il giornale, ebbe a dire che, sotto il fascismo, si stava perfino meglio di oggi (credo, ovviamente, dal punto di vista politico), è presumibile che il meglio debba essere individuato nella mancanza di movimento nella lotta delle idee e nella “serenità” – ovviamente apparente – con cui la gente accettava ciò che veniva dall’alto, cosa che, evidentemente, fa piacere anche alla sinistra. Ma, della politica, mi fermo qui. Ho promesso di parlarne lo stretto necessario.
Parlerò, invece, del Camilleri scrittore, e, in particolare, del giallista, perché dello storico non ho letto molto (in pratica solo Il Birraio di Preston e i due racconti di Privo di titolo e, francamente, non li ho apprezzati molto) e perché credo di dovere molto, come giallista, al Nostro.
Il Commissario Salvo Montalbano non è proprio originale nella nostra letteratura. Secondo il parere di chi scrive, deve molto al Commissario Maigret. Ma non a quello di Simenon, bensì, anche se solo in parte, a quello di Gino Cervi. Mi spiego: il Maigret di Simenon è un funzionario serio, tutto casa e commissariato; un uomo per il quale la giustizia viene prima di tutto e il colpevole è quasi sempre un individuo per il quale non c’è redenzione e che, spesso, accertata la sua colpa, diventa uno sconosciuto per il commissario, il quale, quando c’è la possibilità, gli spiattella, senza troppi complimenti, che il suo reato potrebbe portarlo alla ghigliottina. Montalbano, invece, ha, senz’altro, l’ironia e il coinvolgimento nella res propri del Maigret interpretato da Cervi; in più, il commissario di Vigata ha un atteggiamento più disincantato di fronte alle cose e alle persone, che lo inducono a capire le motivazioni degli atteggiamenti dei colpevoli, dei testimoni e di coloro che, a vario titolo, incontra durante l’indagine. Lo scrittore siciliano ha dato, quindi, al suo Montalbano quella patina di umanità che spesso manca al commissario parigino, una patina di umanità che, in verità, lo fa diventare una macchietta e, in talune occasioni, lo rende incapace di agire come dovrebbe (quante “farfantarie” all’eterna fidanzata Livia e a coloro che gli vogliono sinceramente bene o quante rotture con il modo normale di agire di un funzionario di polizia, quando si vede costretto a nascondere elementi del caso o ad agire sotto traccia se l’indagine è affidata ad altri!). D’altra parte, però, episodi, starei per dire sketch, che fanno sorridere, come i dialoghi con il “fimminaro” Augello, il suo vice pieno di complessi che, dopo La gita a Tindari, romanzo in cui conosce Beatrice (Beba, la donna che sposerà), diventano anche ricerca di idee per nascondere i tradimenti, gli esilaranti e incomprensibili dialoghi con il telefonista Catarella, un pasticcione raccomandato, che fa il telefonista appunto, perché non sarebbe capace di fare altro, ma che si commuove fino alle lacrime solo se il suo capo gli dà una pacca sulla spalla e gli dice «Bravo, Catarè!» o con Fazio, il bravo ispettore che, spesso, lo fa adirare perché ha “il complesso dell’anagrafe”, cioè la tendenza a scrivere su “pizzini” tutta la genealogia di coloro su cui il commissario gli chiede informazioni… e si potrebbero fare tanti esempi… sono altrettante occasioni per mettere in scena un campionario di personaggi atti a raccontare la diversità dei tanti tipi umani e che – ci giurerei: complice la lezione pirandelliana – sanno dismettere la maschera del “tipo” (il telefonista, il vicecommissario, il reo ecc.) per diventare persone a tutto tondo, con vizi e virtù propri. E questa è, a mio modo di vedere, la grande novità che Camilleri ha introdotto nel giallo. Lo stesso Montalbano non è il commissario tutto d’un pezzo, come si è detto del Maigret di Simenon, il “cavaliere senza macchia e senza paura” che non transige dalle regole, che il suo ruolo impongono. Anche lui è un personaggio che diventa persona, capace di raccontare “farfantarie” che non stanno in piedi (ma che, chissà perché, spesso vengono credute), desideroso di non ingessarsi nei regolamenti e nelle procedure, ma con gli occhi fissi all’umano che incontra, del quale comprende e giustifica anche le colpe e di cui si possono dire tante altre cose che non sarebbero lecite a un personaggio / persona tutto d’un pezzo, ma che sono tipiche dell’umano (come il cedere all’impulso della carne di fronte a una donna sensuale e ammiccante).
Ecco, io credo che, stringendo stringendo (alla faccia dello stringere!), Camilleri sia stato tutto questo e, sempre parlando del giallo, ma suppongo che, anche se in maniera diversa (perché diverso il genere letterario), la stessa cosa possa dirsi dello storico. Più che un maestro o un innovatore è stato, voglio usare una parola forse scandalosa, un alchimista, cioè un uomo alla ricerca di qualcosa di nuovo nel rimestio con il vecchio: l’oro dal fango (anche se il suo “fango” non è, poi, tale, se pensiamo al substrato culturale che si nasconde dietro il mondo di Vigata). Oggi è un po’ presto per dire se quell’oro l’ha trovato. Se pensiamo ai guadagni che presumiamo abbia fatto, possiamo dire sì, ma, siccome non si vuole qui sporcare la memoria di un uomo, che ci ha appena lasciato e, del resto, l’oro, di cui parlo è ben altro dal metallo prezioso, concludo, con il testo con cui ho iniziato: ai posteri l’ardua sentenza.
Una cosa è certa. Maigret, Poirot, Sherlock Holmes ecc. con la loro pretesa di voler dividere il mondo in bianco e nero, sono morti e noi giallisti non possiamo più non tenerne conto.

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