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mercoledì 2 settembre 2015

Cosa ci aspettiamo dagli organismi internazionali.



Due eventi auspicati da tempo, ma forse non propriamente attesi, si prospettano all’orizzonte: la conferenza ONU e quella europea sul tema delle migrazioni. La prima prevista per il 20 settembre, la seconda per il 14 dello stesso mese. Intanto le morti in mare aumentano, i nostri politici locali – anche quelli cristiani, ahimè! – non solo, ma forse comprensibilmente, non riescono a dare risposte adeguate sia al problema grande (cioè quello dell’accoglienza, perché, checché se ne pensi, quando vedi centinaia di disperati in mare in pericolo di vita, umanità e legge vogliono che vengano recuperati e sbarcati nel primo porto, e questo è previsto anche per i clandestini) sia a tutte le altre piccole (diciamo piccole!) difficoltà connesse (nei tanti talk show, che la TV ci propone, nei social network e nell’opinione comune della gente, che incontri per strada, scopri il disagio di quella che è stata chiamata “la guerra fra poveri”). E il perché si può capire facilmente. Una nazione sola – e non importa che sia l’Italia o la Francia o la Germania o un’altra qualunque delle rimanenti europee – non può sobbarcarsi il peso di un evento globale ed epocale come quello che stiamo vivendo.
Come sarà valutata, dunque, la posizione italiana di chiusura verso la possibilità di sospendere Schengen da quei Paesi che mostrano una grande voglia di chiudere, invece, le frontiere (e mi pare che siano un bel numero, senza contare la Gran Bretagna, che vorrebbe chiudere anche ai disoccupati comunitari)?
Chi ha letto i miei interventi (anche su Facebook) sa come la penso su ciò che sta succedendo e come non amo le posizioni di chi vuol lasciare a se stessi questi nostri fratelli. Ma – e qui non vorrei essere frainteso né chiamato voltagabbana – un conto sono le persone, un conto le politiche.

«Il Giornale» online del 30 agosto riportava due articoli, in cui, rispettivamente, Magdi Cristiano Allam (leggi) e il politologo statunitense Edward Luttwak (qui) si scagliavano contro Papa Francesco per accusarlo di non capire quello che sta succedendo in Europa, e segnatamente il fatto che stiamo assistendo inermi al crollo dell’Europa cristiana e alla sua conseguente islamizzazione.

I due articoli si accompagnano ad un terzo articolo molto dettagliato di Antonio Socci su «Libero» dello stesso 30 agosto, fruibile dal suo blog “Lo Straniero” (leggi).
Naturalmente, anche se non tutti, molti sapranno che il giornalista e scrittore senese è antibergogliano fin nel DNA da subito (si ricorda qui il suo libro «Non è Francesco», in cui si sostiene, Universi Dominici gregis alla mano, che l’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio non avrebbe rispettato le norme di S. Giovanni Paolo II per i conclavi che avrebbero eletto i Papi a cominciare dal suo immediato successore e, dunque, sarebbe nulla) e, quindi, quei molti diranno che la cosa non fa testo. Ma non è questo il luogo per discutere di un libro che, fra l’altro, non ho ancora letto. Quello che voglio dire è che l’articolo di Socci è l’opinione di un prevenuto, per il quale Papa Francesco sarebbe una sorta di Antipapa tra l’altro anche distruttore della dottrina tradizionale, e, dunque, andrebbe preso con le dovute cautele. Lo cito solo per “dovere d’ufficio”: ciascuno è libero di pensarla come crede. Per il sottoscritto Francesco è il Papa uscito da un conclave e mai ufficialmente sconfessato (del resto, credo, per farlo occorrerebbe un Concilio Ecumenico apposito).
Certo, vi sono alcune posizioni che fanno pensare, ma credo sia un po’ presto per giudicare.
Ma torniamo a noi.
Accusare il Papa di non saper giudicare quello che sta accadendo mi lascia senza parole e mi fa pensare. Sì, l’Europa sta correndo, oggettivamente, un grave rischio, ma siamo sicuri che le colpe siano tutte del Papa? Siamo sicuri che siano proprio i suoi richiami a sfaldare un tessuto già rattoppato da tempo? Nel post precedente ho accennato a quello che credo essere il compito degli uomini di Chiesa.
La Chiesa deve dare delle indicazioni e la sua bussola non può essere altro che la parola di Dio e il Magistero. Il Santo Padre, dunque, non interrompe, come vorrebbe Socci, una Tradizione né pretende stravolgerla, tanto è vero che lo stesso Socci cita testi che non potrebbero in alcun modo contraddire ciò che dice il Pontefice. Il problema, semmai, è la prospettiva da cui guarda Francesco e quella da cui dovrebbero guardare i politici. Il Capo della Chiesa Cattolica pone l’accento sull’emergenza, non sul retroterra. Egli dice soltanto che a coloro che bussano alla porta bisogna aprire. Non mi pare che entri nel merito di ciò che bisognerebbe fare. Questo è campo della politica, che, in questo caso, dovrebbe tener conto che legge e umanità impongono certi comportamenti, comportamenti concreti, che il Papa indica come ineludibili. Dopo sarà la politica a trovare le strade opportune per risolvere concretamente i problemi, avendo come punto di riferimento la concreta giustizia e, come finalità, il bene per tutti, autoctoni e stranieri (pretestuoso, naturalmente, polemizzare su chi debba essere soddisfatto per primo. Una volta instaurata la reale uguaglianza, il problema non si porrebbe).

Le complicazioni nascono quando il bene e la giustizia sono a senso unico, perché un conto è aiutare ad uscire dalle difficoltà, un altro conto servirsi di chi è in difficoltà per secondi fini, quali che siano. L’uomo non può essere un mezzo. Mai! L’UE e l’ONU, dunque, non dovranno imporre ciò che singoli Stati non potrebbero essere in grado di sopportare e i singoli Stati non dovranno chiudersi preventivamente a logiche di elementare solidarietà.
Riguardo all’islamizzazione dell’Europa, poi, il discorso è molto più profondo e non credo, qui, esserci spazio per affrontarlo senza tediare il lettore con un discorso più lungo, che non potrà non investire il Concilio Vaticano II e la sua conseguente nuova valutazione delle altre religioni e dei loro contenuti. Un discorso che esula dalle mie competenze. Un giudizio abbastanza superficiale chiama in causa, da un lato la lotta al relativismo tanto cara a Benedetto XVI – e, in realtà, alquanto abbandonata da Francesco –, dall’altro una più forte presenza, sul territorio, dello Stato con le sue leggi (e, qui, non parlo delle forze dell'ordine, che sono naturalmente chiamate al loro servizio trattando paritariamente sia italiani sia stranieri, ma piuttosto quella parte dello Stato preposta alla produzione della Cultura - senza escludere giornalisti, scrittori e artisti vari - alla valutazione e conservazione di essa e alla sua trasmissione alle generazioni future, compito, quest'ultimo cui dovrebbero prestarsi precipuamente scuole e università, ma anche musei, biblioteche e siti archeologici, cui dovrebbe essere dedicata adeguata cura e protezione, anche internazionale).

Le assemblee prossime venture, e soprattutto quella che si terrà all’ONU, dovranno, più che dare soluzioni pratiche, impostare il problema in modo diverso: combattere, piuttosto, il traffico di esseri umani e creare pace e sviluppo nei territori da dove provengono i migranti, onde cominciare ad inculcare nelle giovani generazioni una mentalità simile a quella auspicata ad esempio dai vescovi congolesi per i giovani africani, ma mutatis mutandis il discorso può valere anche per molte nazioni asiatiche: lavorare per il proprio Paese è possibile. E, insieme, cercare di creare, o rinforzare dove già c'è, questa consapevolezza che ciò che fa una Nazione, oltre confini ed etnie, è il richiamo ad una Cultura ben precisa.
Chi crede, dunque, dovrebbe pregare per questo; chi può dovrebbe agire.

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