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sabato 8 agosto 2009

Claudio Magris e la cultura italiana.

La lettera aperta, che il professore e scrittore, nonché senatore della Repubblica (Gruppo misto), Claudio Magris ha inviato dalle pagine on line del Corriere della Sera al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, trasuda ironia in ogni parola. Il motivo di questo intervento è stato la proposta leghista di modificare l'art. 12 della Costituzione e il "grande amore" di Bossi & C. per i simboli nazionali. Lo studioso fa notare che bandiere e inni sono simboli "validi solo se esprimono un'autentica realtà culturale del Paese" e, deplorando che questa unità non c'è più (secondo lui città, province, regioni ecc. non sono - o non sono più, non si capisce bene - simboli di unità), chiama "moderato" un'eventuale manomissione dei simboli, di cui sopra. A quasi 150 anni dall'Unità, ciò fa sorridere e indigna nello stesso tempo. Fa sorridere perché, fra i tanti problemi del Paese e le riforme di cui esso ha bisogno, qualcuno ha creduto di incominciare dal meno incisivo (non perché per questi "signori del nord" non sia reale il disagio che debbano sentire quando pensano che sotto quel Tricolore vivono e lavorano anche gli odiati "terroni" e che, lo vogliamo o no, tutti siamo stati - o siamo, a seconda di come si voglia vedere la cosa, "schiavi di Roma", ma solo perché tutto ciò non "incide" né positivamente né negativamente sul benessere reale del Paese). Indigna, invece, perché non è più possibile vedere in giro l'attaccamento a tutto ciò che promuove lo spirito. I simboli non sono qualcosa di marginale nell'immaginario e nella cultura di un Paese, per cui si debba dire "sono soltanto" dei simboli (un qualunque dizionario etimologico, per esempio questo, farà conoscere che il "simbolo" era un oggetto reale che collegava a qualcosa di reale). Se il simbolo diventa marginale, diventa solamente "importante", significa che ha perduto di valore, ma non necessariamente perché ha perduto di valore ciò che rappresenta. Quando ci sono disastri nazionali naturali o dovuti all'uomo (atti di terrorismo, delitti efferati ecc.), vediamo ancora, e volentieri, l'unità della nazione. Essa c'è, e noi la sentiamo. Tremiamo, perché, nonostante tutto, le parole, almeno quelle, non sono ancora del tutto vane. Quello che, a parere di chi scrive, non c'è più o è, comunque, diventata merce rara è la ragione culturale del nostro essere insieme. La Lega ha messo sul tavolo anche la possibilità di chiedere agli insegnanti del nord le conoscenze del dialetto e delle culture locali. Non che la cultura locale sia da disprezzare, ma a me pare come una trovata pubblicitaria. In un mondo ormai globalizzato non possono esserci "personalismi" in fatto di cultura. Nell'era della cultura di massa e di Internet, anche il poeta o scrittore della regione più sperduta della Terra parla a tutti. Globalizzazione non è solo unificazione globale dell'economia, o delle economie, ma anche, e forse soprattutto, delle culture e dei valori. Tutti gli intellettuali producono per l'intera nazione e quello che un tempo è stato scritto per ingraziarsi il favore di un principe o di un potente o per altra necessità contingente è diventato patrimonio dell'intera nazione. Se si riducono la letteratura, le arti e le scienze ad un discorso puramente campanilistico, che cosa rimarrebbe a questa nostra Italia, che un tempo ha saputo essere faro di civiltà per tutti i popoli del Mediterraneo e oltre? Non credo che i nostri politici oserebbero togliere ai nostri giovani la bellezza e la forza morale di un Dante Alighieri, tanto innamorato della "sua" Firenze eppure tanto Italiano, o di un Manzoni, che in nome dell'Italianità, "risciacqua in Arno" il suo romanzo così pieno di Lombardia (cosa che avrebbe fatto rizzare i capelli a Bossi e ai suoi). Che cosa, dunque, ci fa sentire più Italiani l'esempio dei grandi summenzionati o il dito medio del Senatùr alzato contro il ricordo della grandezza di Roma citata nell'Inno di Mameli e le sue tirate contro il vessillo nazionale? Senza considerare, poi, che, a 150 anni dall'Unità, tempo in cui ci sarà retorica a tutto spiano, è giusto ricordare anche le migliaia di morti perché noi potessimo liberarci da uno straniero tiranno e unirci sotto ideali politici, sociali, religiosi e culturali comuni.

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