Venduto
in venti Paesi, giudicato assai positivamente dalla critica e premiato dai
librai, Le bambine che cercavano
conchiglie (o, con il titolo originale inglese, The secrets of the Tide, come cercherò di spiegare, molto più
calzante; Garzanti, febbraio 2013, pagg. 416, € 18, 60) è l’opera prima di una
esordiente inglese naturalizzata australiana proveniente dal mondo del cinema.
La
trama si racconta in due parole: una donna, travolta da sensi di colpa causati
da un tremendo passato che ha disgregato la sua famiglia, per amore del bambino
che porta in grembo, si mette in viaggio (un viaggio che sarà anche interiore) per
cercare di recuperare rapporti interrotti e “guarire” dal proprio travaglio.
L’intreccio, ovviamente, è molto
più articolato e, ad onor del vero, caratterizzato da una scrittura non sempre
d’alto livello. Interessante è, però, come l’autrice sviluppa questa semplice
trama fino a costruire una sorta di romanzo di formazione, in cui, però, è
l’intera famiglia a crescere e a superare la crisi (che, poi, non sarà, come
spiegherò più avanti un vero e proprio superamento, ma solo una parvenza di
superamento). Ciò che, a mio avviso, rappresenta, invece, una delle pecche più
gravi è la suddivisione non nei capitoli tradizionali, ma in unità tematiche
dal contenuto più “psicologico” che “cronologico”. Le unità narrative
segnalano, all’interno del romanzo, due piani temporali, quello dell’oggi della
protagonista, Dora, e quello del passato, risalente a undici anni prima, e
della tragedia che ha disgregato la famiglia. Una soluzione molto ben azzeccata
per un romanzo costruito sul passato e sulla sua “fruizione psicologica” da
parte di chi l’ha vissuto, ma non ben gestita fino in fondo, poiché questi
flashback sono completamente autonomi rispetto al resto della storia, non
costituiscono, come sarebbe stato più opportuno, ricordi di Dora o racconti dei
vari personaggi protagonisti di questi altri “segmenti temporali”, ma
semplicemente un ampio antefatto contenente troppi particolari.
La vera protagonista della
storia, dunque, è l’intera famiglia Tide (Richard e Helen con le loro figlie
Cassandra, o Cassie o anche Cass, e Pandora, o Dora) che, come detto, a poco a
poco, prende consapevolezza di sé grazie al parziale superamento della crisi in
cui l’aveva gettata la drammatica perdita di un altro componente, il piccolo
Alfred, o Alfie, vicenda che tinge il romanzo di una stimolante vena noir. La
famiglia, dunque. E, credo, non solo i Tide, ma proprio l’istituzione in sé
della famiglia, cioè quella cellula primaria della società che oggi tutti
dicono di difendere, ma che tutti bistrattano e cercano in ogni modo di
distruggere.
La Richell, dunque, dal suo
personalissimo punto di vista, attraverso la vicenda dei Tide, mostra come i
rapporti all’interno di una famiglia tendano a sfaldarsi quando si spezza “il
sottile ma resistente filo che la tiene insieme” (per riprendere un’espressione
del recensionista del Daily Mail). E,
leggendo il romanzo, si capisce molto bene che questo “sottile ma resistente
filo” è la fiducia, una fiducia, però, che non è la semplice stima dell’uno per
l’altro (che già sarebbe tanto), ma quel sentimento che ti permette di
affidarti a chi ti sta vicino perché sai che, al di là delle apparenze, questi
vuole ciò che vuoi tu, anche se, magari, in maniera diversa. Nel romanzo,
infatti, l’inizio della disgregazione è costituito dalla morte dei genitori di
Richard e, precisamente, quando l’uomo comincia a prendersi cura della villa
dove abitavano, venerandola come un santuario e imponendo alla famiglia un mal
digerito trasloco. Le bambine amano quel posto e, in particolare, il vicino
mare e le sue coste alte e rocciose, dove, spesso passeggiano e si divertono a
raccogliere conchiglie, ma Helen riesce a vedere solo l’egoistico ed infantile
attaccamento del marito a quella casa e l’imposizione di una vita lontana dal
mondo accademico londinese, di cui faceva parte (anche se il marito le ha
promesso che sarà solo fino a quando le bambine saranno più grandi).
Tutto questo insinua nel suo
animo il dubbio che Richard non l’ami più come una volta. La nascita di un
terzo figlio, che Helen, forse un po’ per compiacere il marito, chiama Alfred,
o Alfie, come suo padre, sembra consolarla un po’, ma è l’inizio della fine
della famiglia, poiché segna il reciproco allontanamento tra la madre e le
figlie, allontanamento di cui risentirà anche lei, perché i rapporti umani si
nutrono di reciprocità. È adesso che un pittore, conosciuto per caso in una
galleria d’arte dove esponeva e ritrovato come collega nell’Università dove,
nel frattempo, è ritornata ad insegnare, diventa il suo amante, circostanza che
causerà tutta una serie di eventi che, indirettamente, porteranno alla morte di
una creatura innocente, all’inizio di una complessa ridda di sensi di colpa e
di accuse scambievoli che mineranno in profondità i rapporti fra i membri della
famiglia, provocando l’allontanamento dei membri.
L’aspetto noir.
Il romanzo ha, innegabilmente,
anche un aspetto noir. Lo innesca la morte del piccolo Alfie. Essa avviene
grazie all’egoismo dei suoi genitori e al senso di ribellione e alla
sbadataggine delle sorelle maggiori, soprattutto della più grande, Cassie, ormai
sulla soglia dell’adolescenza. La ragazza, alla ricerca di quelle attenzioni di
cui ha bisogno una giovinetta che diventa donna, è presa da un senso di
ribellione di fronte all’atteggiamento dei genitori, che hanno rivolto la
maggior parte delle loro cure verso il nuovo arrivato. Dapprima, dunque, cerca
di coinvolgere Dora in una sorta di patto di mutua assistenza, in un secondo
tempo, si chiude in se stessa e la sua aggressività sfocerà in segreti gesti
autolesionisti, fumo di marijuana e, infine, nella scoperta della propria
omosessualità. Il suo desiderio di trasgressione farà precipitare l’equilibrio
precario creatosi all’interno della famiglia.
«È una bella giornata estiva. Richard è al lavoro. Helen, già
in ferie dall’università, con una scusa scappa dall’amante e affida il piccolo
Alfie alle ragazze, che, per non rinunciare ad una giornata di mare se lo
portano dietro al Dirupo, uno delle tante cavità scavate nelle coste alte e
rocciose del Dorset, luogo segreto frequentato da innamorati in cerca di
intimità, dove Cassie ha progettato di appartarsi e, all’insaputa della
sorella, avere, tra i fumi della droga, il primo rapporto con l’amica Sam. Una
puntata al bar e l’indugio con un amico di scuola da parte di Dora farà perdere
e, successivamente, annegare il bambino che, trascurato da entrambe le sorelle,
si è messo a giocare da solo.
Il corpo del piccolo Alfie non sarà mai ritrovato e la
verità vera non sarà mai nota (solamente nelle ultime pagine, consapevolmente
ed inconsapevolmente, tutti i nodi verranno al pettine) e ciascuno dei Tide si
porterà dentro la sua parte di colpa, soffrendo per proprio conto e facendo
soffrire gli altri: in primo luogo Helen, che allo strazio della perdita del
figlio deve aggiungere il dolore per il doppio tradimento nei confronti di un
marito, che contrariamente a quanto aveva precedentemente creduto si è mostrato
un uomo buono e generoso, e dello stesso Alfie, poi Richard, distrutto da una
presunta incapacità nel portare avanti, insieme alla Polizia, le ricerche del
figlio e dall’inettitudine alla protezione della famiglia, Dora, che unica ad
aver confessato alla madre quella che crede la ragione della tragedia, ma che è
soltanto la sua parte di colpa, soffrirà un vero e proprio ripudio da parte
della madre e, infine, Cassie, che, consapevole di essere la vera colpevole,
prima di risistemare la sua vita attorno ad un progetto di agricoltura
biologica insieme alla sua compagna e ad alcuni amici, scappa di casa e arriva
a tentare il suicidio.»
Credo che sia chiaro, dunque, che
l’aspetto più originale di questo noir sui
generis sia, non tanto la scoperta di come sono andate le cose (che il
lettore, almeno per sommi capi, conosce perché narrati nei “flashback”), ma
piuttosto la suspense della modalità con cui ciascuno dei personaggi cerca di
mettere a posto o almeno di rivelare le sue colpe vere o presunte, rivelazioni
delle varie verità, però, che non apporteranno alcuna modifica sostanziale agli
equilibri creatisi dopo il fattaccio né potrà esserci davvero un perdono
(perdono di cui parla il critico del periodico Grazia UK), proprio perché il perdono sottintende un cambiamento.
L’atto finale del romanzo sarà il matrimonio di Dora e del compagno Daniel
(Dan), evento sancito dalla nascita della loro figlia, che, non a caso,
chiameranno Speranza, cioè con il nome che diamo a quell’attesa di eventi che
ci permette di vivere il presente in attesa di un futuro migliore.
Ma è possibile un futuro migliore
senza il definitivo e volontario superamento delle impasse presenti?
Forma narrativa.
Le
bambine che cercavano conchiglie è un romanzo grosso, e non solo in
senso quantitativo, ma anche qualitativo. A mio parere, la Richell ha parlato
di molte cose, ma non è riuscita pienamente a gestire la mole di informazioni.
Ho ampiamente illustrato la presenza dei due piani del passato e del presente e
dei vari protagonisti al centro delle unità narrative. Da qui – credo sia
facile dedurlo – scaturisce la presenza di vari punti di vista (anche se
mascherati da una uniforme terza persona onnisciente), cosa che, diciamolo
francamente, un bravo scrittore dovrebbe evitare. Credo, dunque, di non
scandalizzare nessuno se dico che questo romanzo, benché di grande successo e
nonostante sia passato al vaglio di un agente letterario, rimane l’opera di
un’esordiente proveniente dal mondo del cinema, cioè da un’arte nella quale la
presenza di flashback e di più piani serve a risolvere numerosi problemi narrativi.
In letteratura, però, i problemi narrativi vanno risolti in ben altro modo e,
nel nostro caso, quello che sarebbe servito alla nostra esordiente sarebbe
stata una sostanziosa scrematura nell’intreccio ed una maggiore unitarietà
nella narrazione. A parte queste pecche, che, a quanto pare, la critica e il
pubblico non hanno notato, però, questo romanzo rappresenta una lettura
piacevole, in cui si fanno notare, oltre alle dinamiche psicologiche rese con
buon realismo, anche un linguaggio scorrevole e privo di volgarità e il pudore,
per altro forse tipicamente anglosassone (Niente sesso, siamo inglesi! recitava una vecchia commedia americana del 1971,
portata in Italia da Garinei e Giovannini due anni dopo, ma di grande successo
fino agli anni ottanta), nella descrizione di particolari scabrosi che un certo
tipo di letteratura nostrana molto in voga avrebbe senz’altro esaltato.
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